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  • Da: Assostampa FVG
  • aprile 27, 2007

Dal Cdr del Corriere della Sera

E’ un segno dei tempi ma anche un motivo di rimpianto il fatto che nessuno fra gli azionisti del «Corriere della Sera», molti dei quali “newcomers” rampanti e nessun editore puro, abbia più la nobile profonda passione per il giornalismo dimostrata in passato, nelle loro stagioni dentro o intorno a via Solferino, da altri autorevoli personaggi.
Una passione nutrita di sensibilità ai temi dell’informazione, ma intesa anche come uno stile di comportamento, come una tensione etica capace di pensare in termini di interesse collettivo oltre che di profitto individuale. La Rcs Mediagroup, che pubblica il «Corriere» e mantiene un ruolo di leadership nel panorama editoriale, si riunisce oggi in assemblea ordinaria e straordinaria affidando la propria immagine alla contabilità finanziaria burocratica e manageriale, ma negando la propria identità, la sua stessa “ragione sociale”, che la vorrebbe portatrice e interprete dei migliori valori ispirati al mondo della comunicazione. Rcs è uno dei gruppi più forti e autorevoli della Federazione Italiana Editori Giornali, che con formidabile arroganza si sottrae a qualsiasi tavolo di trattativa sul rinnovo del Contratto nazionale di lavoro della nostra categoria, scaduto da quasi 800 giorni.
Questa scelta è stata finora condivisa e sostenuta da un’Azienda che, in casa propria, ha mantenuto un comportamento diverso, pressata da una Redazione e da una rappresentanza sindacale compatte e rigorose nel determinare gli obiettivi e gli strumenti per raggiungerli. Così il confronto con i giornalisti del Corriere e con il Comitato di Redazione non si è mai interrotto, nonostante asperità conflittuali estremamente dure sulle regole, le interpretazioni contrattuali, la politica retributiva. Azienda e Cdr hanno sottoscritto, in un anno e mezzo, quattro accordi di sistema e raggiunto altre intese significative. Perciò il CdR ha chiesto il 18 aprile in una lettera, al presidente Piergaetano Marchetti e all’amministratore delegato Antonello Perricone, di chiarire la visione generale dell’Azienda sulla vertenza nazionale e gli obiettivi che essa realmente persegue.
Ci interessa comprendere le ragioni di uno “sdoppiamento” aziendale che rivela, al momento e
fino a prova contraria, una deludente abdicazione alla propria autonomia e una inquietante sudditanza ad altri gruppi editoriali. Quelli, per esempio, che chiedono come discriminante, per l’apertura di una trattativa, la rinuncia preliminare dei giornalisti agli scatti di anzianità. Questa voce rappresenta l’unico automatismo salariale rimasto alla categoria, come difesa dei più deboli e dei più esposti a pressioni. La Rcs ha mostrato negli ultimi quattro anni una disinvolta generosità nei confronti dei propri amministratori delegati e direttori generali, ai quali ha versato, in un autentico girotondo di buone uscite e buone entrate, oltre 50 milioni di euro di sole liquidazioni e bonus. Al precedente amministratore delegato, per due anni di lavoro, 7,8 milioni di euro unicamente di liquidazione. Per raggiungere una cifra come quella pagata in quattro anni ai grandi “commis” aziendali, bisognerà mettere uno sull’altro per circa 150 anni tutti i futuri scatti di anzianità di tutti i giornalisti del Corriere. Nel bilancio, si riconosce anzi che all’incremento dei ricavi netti ha contribuito il progetto “full color” avviato nel luglio 2005 e perfezionato nel 2006. Una “rivoluzione” editoriale la cui realizzazione è stata interamente caricata sui giornalisti.
Rcs è governata da un Patto di Sindacato che raggruppa 15 soci e oltre il 65 per cento delle azioni; più altri azionisti stabili o in predicato di entrare nel Patto con il 17,6; le azioni proprie sono il 2,6; rimangono sul mercato il 14,6 per cento delle azioni. Nessuno comanda ma ognuno ha un diritto di veto. Un “monstrum” in un mercato finanziario che dovrebbe essere libero e aperto; un altro esempio di quel singolare capitalismo all’italiana, blindato e cristallizzato, in mano a élite autoreferenziali poco o nulla competitive sul mercato internazionale, che ci rende unici in tutto il mondo industriale avanzato.
In questa compagine di grandi azionisti sono rappresentati tutti i principali settori economici, finanziari e imprenditoriali del Paese. Il “business” di riferimento non è più la pubblicazione dei giornali, ma il perseguimento degli interessi specifici legati a queste innumerevoli attività produttive: persino la qualità del giornale, nelle scelte editoriali che la riguardano, può essere penalizzata e sacrificata a questi interessi di primaria importanza. Riconoscere che i lavoratori non sono ingranaggi, che la loro facoltà di pensare è una risorsa e non un pericolo, significherebbe per gli editori ammettere che i giornali non devono essere il “service” per vendere altri beni o per controllare più pesanti pacchetti azionari, che la cultura non è una merce, che la politica non è uno strumento da condizionare, o addirittura surrogare, per favorire le proprie operazioni di mercato.
Arthur Miller ha detto una volta, in una intervista all’”Observer”, che un grande giornale indipendente è una nazione che parla a se stessa. Attraverso la voce di chi lo fa e di chi lo possiede, ciascuno nel suo ruolo, ciascuno tenuto al rispetto della verità e della libertà d’informazione: due beni che anche gli editori s’impegnano statutariamente a garantire attraverso lo sviluppo della diffusione e la tutela della economicità delle aziende. Un giornale vero è, quindi, una voce collettiva che non può nascere se non dal dialogo sociale, dalla concertazione e dalla condivisione di alcuni valori fondamentali. L’impasse logico ed etico degli editori dimostra che essi non hanno nulla da dire, su questi temi di basilare democrazia, non solo ai propri soci nelle assemblee, ma nemmeno all’opinione pubblica, ai lettori, a un Paese che esprime l’esigenza di migliorare e di crescere.