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  • Da: Assostampa FVG
  • novembre 16, 2021

INPGI: FORUM REPUBBLICA E MACELLONI SUL FOGLIO

Il Forum di Repubblica. A confronto l’ex presidente dell’Inps Tito Boeri, la deputata Pd Alessia Rotta, la presidente dell’Inpgi Marina Macelloni e il segretario della Fnsi Raffaele Lorusso (di Rosaria Amato e Roberto Mania)

ROMA – Dal primo luglio del 2022 l’Inpgi, l’Istituto di previdenza dei giornalisti, passerà all’Inps. Lo prevede la legge di Bilancio presentata dal governo. Da anni l’Inpgi ha i conti in rosso per la lunga e profonda crisi dell’editoria ma anche per regole pensionistiche più generose rispetto a quelle generali. Da qui la decisione del governo Draghi che, tuttavia, non ha sciolto l’istituto, non è intervenuto sulle attuali pensioni e ha lasciato fuori dell’Inps, il fondo (Inpgi 2) dei giornalisti che svolgono lavoro autonomo. Tito Boeri, professore alla Bocconi ed ex presidente dell’Inps, è stato molto critico su questo provvedimento sostenendo che in questo modo si scaricano i costi di una cattiva gestione sull’intera collettività. Repubblica ha messo a confronto Boeri con la presidente dell’Inpgi, Marina Macelloni, la deputata Alessia Rotta (Pd), che si è occupata di questa vicenda, e il segretario generale della Fnsi (il sindacato unico dei giornalisti), Raffaele Lorusso.

Con il trasferimento dell’Inpgi all’Inps si sta consumando davvero un danno alla collettività?
MACELLONI: «Sicuramente la soluzione che è stata individuata, spostando gli iscritti dall’Inpgi all’Inps, sposta il costo di questa parte della previdenza da una cassa previdenziale privata a carico dello Stato. Non bisogna però dimenticare cosa è stato in tutti questi anni l’Inpgi per la collettività, facendosi carico di tutto il costo delle ristrutturazioni aziendali, degli ammortizzatori. E questi sono soldi che lo Stato ha risparmiato».

Quanto ha risparmiato lo Stato?
MACELLONI: «Negli ultimi dieci anni abbiamo speso di ammortizzatori sociali 500 milioni».

Onorevole Rotta, c’erano anche altre soluzioni, oltre al trasferimento dell’Inpgi nell’Inps? Quali? E perché non sono state percorse?
ROTTA: «Le altre soluzioni erano state già messe sul tavolo con il precedente governo Conte ma sono emerse sempre grandi difficoltà di realizzazione. Per questo si è arrivati a questa soluzione».
BOERI: «Quella che è stata adottata è una soluzione inevitabile, non è la prima volta né sarà l’ultima che una cassa confluisce nella previdenza pubblica. Ci sono però delle differenze molto importanti relativamente a come sta avvenendo questa confluenza e come sono avvenute in passato. L’Inpdai, l’Enpao o altri enti in dissesto sono confluiti nell’Inps con lo scioglimento dell’ente e anche con il fatto che l’ente di provenienza ha proceduto a intervenire sulle prestazioni in essere. In questo caso la confluenza avviene mantenendo in vita l’Inpgi e dandogli in qualche modo l’unica gestione in attivo, cioè l’Inpgi 2, mantenendo in piedi la governance dell’ente che in queste condizioni avrebbe dovuto portare i libri in tribunale. Teniamo da parte la questione degli ammortizzatori sociali che sono una parte minima del bilancio dell’Inpgi e del suo disavanzo. Per esempio l’anno scorso il disavanzo legato agli ammortizzatori è stato inferiore ai dieci milioni, quando l’Inpgi nel suo complesso aveva un deficit superiore ai 200 milioni. Il dissesto dell’Inpgi è dovuto a una ragione molto semplice: per decenni ha pagato delle prestazioni molto più generose di quelle che venivano concesse dagli altri sistemi previdenziali».

Ma se l’Inpgi è una gestione sostitutiva dell’assicurazione generale obbligatoria, è corretto considerare i 500 milioni che negli ultimi dieci anni l’Inpgi ha destinato agli ammortizzatori sociali come un risparmio dello Stato?
MACELLONI: «Certo che la cassa integrazione viene pagata attraverso i contributi, ma se fosse stata a carico dell’Inps sarebbe stata a carico dei contribuenti perché, come sappiamo, il bilancio dell’Inps non chiude in pareggio. Mi sbaglio?».
BOERI: «Ma all’Inps le imprese versano i soldi per la cassa integrazione. Se le aziende editoriali non li versano all’Inps ma all’Inpgi non è che possiamo chiedere all’Inps di farsi carico dei contributi e delle prestazioni per i giornali».
MACELLONI: «Non ho mai detto che l’Inps dovrebbe farsene carico».
LORUSSO: «Vorrei tornare su un punto sollevato dal professor Boeri: quella sul dover portare i libri in tribunale. A me pare una provocazione perché se valesse questa regola, bisognerebbe portare i libri in tribunale di tutta la previdenza italiana, Inps compreso perché stiamo parlando di un istituto che registra un disavanzo di 7,2 miliardi. L’Inpgi non è un’eccezione. Quanto all’ipotesi di commissariare l’Inpgi vorrei far notare che stiamo parlando di un settore che in qualche modo ha rilevanza costituzionale perché parliamo di informazione. Dunque vorrei capire quale governo, sia politicamente sia da un punto di vista costituzionale, si assume anche la responsabilità di commissariare l’istituto previdenziale di un settore di chi fa informazione a fronte di un’assenza di mala gestio. Perché se si fosse trattato di un caso di mala gestione i ministeri vigilanti che siedono nel consiglio di amministrazione dell’Inpgi sarebbero già intervenuti. Non l’hanno fatto perché siamo di fronte a uno squilibrio strutturale relativo all’andamento del mercato del lavoro, non alla gestione dell’Inpgi».

Onorevole Rotta, ha fondamento l’accusa di chi ritiene che il governo ha messo a carico di tutti la “bad company” e lasciato all’Inpgi il fondo in attivo dei lavoratori autonomi, cioè la “good company”?
ROTTA: «Sono due cose diverse, non ci sono una “bad” e una “good company”. Il fondo dei giornalisti autonomi è in attivo semplicemente perché non eroga ancora le pensioni. C’è un tema, però, che vorrei sollevare: quello della vigilanza. Se le cose sono andate così è anche perché una vigilanza non è stata esercitata e questa è una responsabilità molto grave perché viene da lontano».
MACELLONI: «Alcune precisazioni. Per decenni l’Inpgi ha pagato prestazioni più generose? Sì, però a partire da quasi subito dopo la privatizzazione molto meno perché la prima riforma dell’Inpgi è del ’98 quando, pur rimanendo nel sistema retributivo, abbiamo spalmato il calcolo della pensione su tutta la vita lavorativa; poi abbiamo fatto una riforma nel 2005, una nel 2011, quando abbiamo anticipato l’equiparazione dell’età delle donne a quella degli uomini, nel 2015 e infine nel 2017. Quindi dire che l’Inpgi non è intervenuto è scorretto. Aggiungiamo pure che una crisi così violenta forse non era così facile da prevedere. Quanto a Inpgi 2 vorrei dire che non è che va bene in quanto non ha ancora iniziato a pagare le pensioni, va bene perché sta incrementando i numeri dell’istituto, il patrimonio e la gestione in sé che è nata con il contributivo puro e che ha una sostenibilità a cinquant’anni che ci è stata appena certificata dai ministeri vigilanti. I quali non posso proprio dire che non abbiamo vigilato Inpgi 1. Noi siamo stati super vigilati».
BOERI: «Ecco, posso dire che ho appena assistito ad una autoassoluzione da parte dei vertici dell’Inpgi. E trovo che questo atteggiamento sia grave, lasciatemelo dire. Ho sentito parlare anche della Costituzione. Bene, c’è una specificità dei giornalisti che è quella di dare informazioni. Io credo che la presidente dell’Inpgi abbia il dovere di essere trasparente nei confronti dei giornalisti, innanzitutto. Io penso che l’opacità che c’è stata in queste vicende è qualcosa che fa malissimo all’informazione in Italia perché alimenterà sempre il sospetto che ci sia una informazione deformata, che ci siano dei condizionamenti politici. L’Inpgi perde 650 mila euro al giorno, andava commissariato per tempo. Ha tutt’ora una governance che è spropositata, garantisce dei compensi ai membri del consiglio di amministrazione che sono due volte e mezzo più alti di quelli del presidente dell’Inps, tanto per intenderci, ed ha ben sette sindaci».
LORUSSO: «Sul discorso della gestione separata, quella che lei chiama “good company”, bisogna ricordare che nasce per volontà ordinistica su disposizione di legge, e la legge non può essere bypassata perché c’è un’altra gestione che è finita in default. Per quanto riguarda la questione generale, provoca consenso colpire una categoria che viene ritenuta una casta, ma lei non può negare che all’interno dell’Inps ci siano categorie che percepiscano prestazioni molto più alte dei contributi versati: sono le gestioni speciali, e se fosse stato così semplice eliminarle immagino che lei da presidente lo avrebbe fatto.
MACELLONI: «Per riportare un po’ di chiarezza su qualche numero, sono 37 su 7000 i pensionati che hanno una pensione sopra i 200 mila euro, non credo che questo possa essere definito un eccesso di generosità. Inoltre quando abbiamo varato il contributo di solidarietà, arrivando a un massimo del 20%, non è stato una cosa serena, siamo stati portati in tribunale, abbiamo vinto ma nella sentenza del Consiglio di Stato c’è scritto chiaro e tondo che non possiamo più rimetterlo. Infine credo bene che l’Inps avrebbe accolto volentieri anche la gestione separata ci sono 850 milioni di patrimonio là dentro, ma finché è una gestione che è in utile guadagna 50 milioni l’anno, accumula patrimonio, risponde alle esigenze dei suoi iscritti, francamente non vedo perché».
BOERI: «Credo che nel momento in cui si debba andare al risanamento sia importante che ci sia un contributo da parte dell’Inpgi, altrimenti il rischio è che il messaggio che noi diamo alle altre casse che stanno garantendo trattamenti tropo generosi è che tanto prima o poi arriva Pantalone e quindi la collettività si fa carico di pagare. Quanto al mio mandato da presidente dell’Inps, credo di aver fatto luce su tutte le asimmetrie di trattamento che esistevano per i contribuenti, l’ho fatto a vasto raggio partendo dai professori universitari. Chiaramente non potevo intervenire, non avevo i poteri, ho fatto però un’operazione di trasparenza. La gestione separata adesso è in attivo solo per un aspetto generazionale perché gli iscritti sono giovani, avranno sicuramente pensioni molto meno generose di quelli che li hanno preceduti, ma bisogna dare loro un messaggio di verità: questa cassa è insostenibile, e bisogna che confluisca al più presto nel sistema Inps, per giocare sulla solidarietà orizzontale, proprio in virtù del principio che c’è una condivisione del rischio, ma adottando per tutti gli stessi criteri».

Il giornalismo italiano da anni è accusato delle peggiori nefandezze, dalla mancanza di trasparenza sulla previdenza alla subalternità alla politica. È ancora una infrastruttura della democrazia? Merita di essere guardato nel suo complesso?
BOERI: «Io credo che il mestiere di giornalista sia importantissimo ma proprio per questo l’esempio dell’Inpgi deve essere positivo anche per le altre casse».
LORUSSO: «Non si può accettare il principio “colpirne uno per educarne cento”. Credo che il problema sia che ruolo si vuole dare all’informazione. È il momento di avviare un tavolo per una riflessione su questa fase, non possiamo pensare di affrontare la trasformazione digitale con una legge del 1981. Siamo agli ultimi posti per il sostegno pubblico alla stampa, sia diretto che indiretto».
ROTTA: «Il tema del ruolo dell’informazione è un tema molto profondo, ma è assente dal dibattito. Le minacce ai giornalisti, le fake news, sono temi che avrebbero bisogno di essere affrontati, ma sono fuori dall’agenda politica».
MACELLONI: «La soluzione che è stata trovata sull’Inpgi ha un unico grande difetto, e cioè che parlando solo della previdenza si rischia di non guardare a un sistema industriale dell’informazione che in questo momento funziona male, non si sono fatti investimenti, gli editori hanno fatto poco la loro parte, la digitalizzazione non è stata governata. La previdenza è conseguenza di quello che c’è a monte. Temo che ora che il problema della previdenza è stato risolto, tutto il resto non verrà considerato, e invece è proprio quello di cui dovremmo occuparci: il ruolo dell’informazione nel nostro Paese».

 

Segue l’articolo nel quale la presidente Marina Macelloni approfondisce – su “Il Foglio” – le ragioni nelle quali affonda le radici l’attuale situazione.

Finalmente si parla dell’Inpgi! Un po’ fuori tempo massimo, ma meglio tardi che mai. Purtroppo, nell’ansia di volersi occupare di una vicenda che sarebbe stato meglio affrontare qualche anno fa, si rischia di commettere qualche errore di valutazione e sono grata al direttore di questo giornale (Il Foglio ndr) che mi offre l’opportunità di correggere alcune inesattezze lette negli ultimi giorni.

Molti hanno puntato il dito sulla presunta generosità delle prestazioni o sul ritardo con il quale sono intervenuti provvedimenti di riforma, pochi si sono soffermati sulle reali cause delle criticità della gestione sostitutiva dell’Inpgi. Solo negli ultimi cinque anni sono stati persi oltre 3mila rapporti di lavoro dipendente assicurati, pari al 15% dell’intera platea. E contemporaneamente l’Ente, solo grazie alle proprie risorse, ha fatto fronte all’intero costo degli ammortizzatori sociali. Negli ultimi dieci anni praticamente tutte le aziende editoriali italiane, grandi e piccole, hanno ottenuto stati di crisi che hanno comportato per le casse dell’Inpgi uscite per ammortizzatori sociali pari a oltre 500 milioni.

Si può dire che senza l’intervento dell’Istituto oggi probabilmente molte aziende editoriali del paese non esisterebbero più e migliaia di giornalisti avrebbero semplicemente perso il lavoro senza alcuna tutela. Quando si stigmatizza l’intervento dello Stato per “salvare le pensioni dei giornalisti” bisognerebbe ricordare anche quanto ha risparmiato in questi anni lo Stato che ha potuto ignorare la crisi di un settore industriale di grande rilevanza proprio grazie alle risorse messe a disposizioni dall’Inpgi.

A questo proposito qualche parola va spesa sulla famigerata legge 416, una legge dello Stato, introdotta nel 1981 e successivamente modificata anche grazie alle pressioni dell’Ente che ne ha sempre subito gli effetti e contestato gli abusi. La legge, che vale anche per i poligrafici iscritti all’Inps, consente il prepensionamento dei giornalisti dipendenti di aziende in crisi con 62 anni di età e 25 anni di contributi (definita impropriamente da qualcuno “quota 87”). A questi requisiti si è arrivati, dopo anni di battaglie, nel 2017: prima di quella data il requisito di accesso ai prepensionamenti era 58 anni di età e 18 di contributi. Per l’Inpgi la legge 416 è stata una bomba a orologeria che ha consentito dal 2009 ad oggi l’uscita dalla contribuzione attiva di oltre mille giornalisti, con retribuzioni alte, in media cinque anni prima rispetto all’età della pensione di vecchiaia. Ma chi punta il dito oggi contro questa normativa, ripeto: subita e non voluta dall’Inpgi, dov’era nel 2009 quando fu introdotta addirittura la possibilità di ottenere i prepensionamenti grazie a stati di crisi non reali ma semplicemente “prospettici”? Alle casse dell’istituto avrebbe fatto bene, all’epoca, la stessa levata di scudi tardiva di oggi.

Per quanto riguarda gli interventi di riforma, cinque dal 1998 al 2017, l’Inpgi ha adottato per tempo una serie di correttivi del proprio sistema previdenziale tenendo conto delle caratteristiche della propria platea di assicurati contraddistinta da redditi medio-alti. I coefficienti di calcolo della prestazione nel regime retributivo erano tarati su valori decrescenti per fasce di reddito e applicati, dal 1998, sulla media dell’intera vita lavorativa: in questo modo è stato mitigato l’ammontare complessivo dell’assegno pensionistico, determinato sulla base di un coefficiente medio dell’1,5% e non del 2,66%, con effetti sostanzialmente paragonabili a quelli del sistema contributivo. Questo meccanismo è stato ritenuto valido dal Ministero del Lavoro che nel 2012, in seguito alle verifiche sui bilanci attuariali delle Casse previste dalla legge Fornero, ci scrive: “tenuto conto delle risultanze dell’attività istruttoria svolta e delle comuni determinazioni assunte con il covigilante ministero dell’Economia e delle Finanze, si ritiene positivamente superata la verifica della sostenibilità di lungo periodo della gestione previdenziale”.

Nel 2017 l’Ente ha comunque adottato il sistema contributivo avvalendosi della cosiddetta “clausola di salvaguardia” appositamente introdotta nel sistema generale proprio al fine di contenere gli effetti distorsivi che il metodo di calcolo contributivo determina se applicato su retribuzioni elevate. Nessun giornalista percepisce una pensione più alta rispetto al suo ultimo stipendio e ancora oggi, nell’80% dei casi, paghiamo pensioni calcolate con il retributivo perché più conveniente per l’Ente rispetto al contributivo.
Inoltre, in attuazione di un principio solidaristico intergenerazionale, l’Inpgi è intervenuto sui trattamenti in essere applicando un contributo di solidarietà di durata triennale e di entità variabile tra un minimo dell’1% e un massimo del 20 per cento.

Infine, una notazione personale. Mi si accusa di aver detto, nel 2017, che l’Inpgi non sarebbe stato commissariato e che non sarebbe confluito nell’Inps. Negli ultimi quattro anni ho lavorato convintamente perché questo non avvenisse. Ho proposto al legislatore una soluzione diversa che prevedeva l’allargamento della platea dei contribuenti: non uno scippo o una deportazione di iscritti ma un modo per dare una rappresentazione previdenziale realistica ai cambiamenti strutturali che la nostra professione ha attraversato e attraverserà ancora in futuro. Una proposta che non è stata scartata a priori, ha ottenuto una legge nel 2019 ed è stata esaminata e discussa dalla commissione istituita a Palazzo Chigi e che ha concluso i suoi lavori nelle settimane scorse. La politica ha scelto un’altra strada e dal mio punto di vista ha perso un’occasione per affrontare finalmente le criticità strutturali del mondo dell’informazione. In ogni caso, se la norma proposta sarà approvata nella legge di Stabilità, l’Inpgi non sarà commissariato e continuerà ad esistere assicurando e tutelando i giornalisti che svolgono il lavoro autonomo. E che ormai sono la maggioranza.

Marina Macelloni