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  • Da: Assostampa FVG
  • agosto 01, 2007

Lettera di una giornalista precaria

“Sono una dei giornalisti del gruppo E Polis che in questo momento sta vivendo ore di angoscia per la possibile chiusura del giornale. La mia situazione, come quella di altri 800 giornalisti, è però se possibile, ancora più tragica: io sono una collaboratrice. Ovvero, precaria. In questo momento, potrei anche dire, un fantasma.
Una lavoratrice che fino a ieri ha riempito pagine e pagine – nonostante, da salariata a cottimo, fosse la quantità che contasse, ho cercato sempre di farlo nel rispetto dei lettori, dell’azienda e di me stessa, perché se ho scelto e continuo a scegliere questo lavoro non è
per i soldi, ma per la passione che ho per la verità – e che oggi non esiste. Io, come gli altri 800, pariamo un’inutile zavorra da sacrificare alla salute dell’azienda.
Ecco, più che parlare in sindacalese e fare l’elenco delle doglianze preferisco raccontare in breve la mia storia. Che è quella di molti altri, lo so, ma che spero potrà servire ad allargare l’attenzione anche su di
noi, in questa vertenza E Polis.
Per fare quello che volevo, fin da piccola, oltre ogni ubriacatura da Michele Santoro, ho fatto enormi sacrifici: ho studiato Scienze della comunicazione – che poi si è rivelata una di quelle lauree bluff perché dovunque sono spuntate come funghi abbattendo la barriera del numero chiuso e la qualità, che a ….era altissima – poi ho cominciato a saltellare qua e là fra stage non retribuiti e collaborazioni pagate 170 euro al mese: giusto il tanto, se mi andava bene, di pagarmi l’affitto. Ho capito che non
avrei mai ottenuto il praticantato in quel modo e ho deciso di fare il master di giornalismo in una sede non troppo lontana della mia regione, non potendo permettermi di farlo altrove, a Milano o Roma, dove la vita costa il triplo. Altro bluff: lezioni a singhiozzo e bassissima qualità dell’insegnamento in cambio di tasse assolutamente inadeguate: 6000 euro (che nel bando di quest’anno sono diventate oltre 8000). In cambio di un praticantato che, non esito a dire, è comprato, ma che alla prova dei fatti non serve assolutamente a niente. Esci e sei uno dei tanti, con o senza tesserino, con o senza laurea, con o senza esperienza. Il master ha cavalcato un sogno che per molti è rimasto tale: io mi sentivo fortunata ad aver strappato una collaborazione. Ho continuato a credere testardamente che fosse il merito a contare, anche perché era l’unica carta che mi potevo giocare per fare questo lavoro. Ho inghiottito tanti rospi e ho iniziato a lavorare a tempo pieno al Giornale di Sardegna. Quando ha aperto la redazione del Nord Sardegna, sono stata trasferita. Rapporti umani ottimi, fiducia piena da parte dei redattori nei miei confronti: sono da subito diventata organica alla redazione, con i miei spazi fissi, il mio giro di contatti, i miei settori e i miei doveri. L’unica differenza fra me e loro, lo dico senza superbia, è che io avevo un contratto di collaborazione “a pezzo” e loro uno stipendio fisso. Doveri, dicevo, nonostante i doveri siano stati, per tutto questo tempo, unilaterali, visto che, a parte il breve periodo iniziale, i pagamenti non sono mai stati puntuali. In teoria a noi collaboratori ci avrebbero dovuto pagare alla fine di ogni trimestre, poi però si è arrivati a ritardare il pagamento anche di cinque mesi. E quando abbiamo cominciato a lamentarci ci è stato detto che se non ci andava bene quel trattamento, ci potevamo accomodare alla porta. Fin qui, fino a che, come sempre, neanche questo ultimo trimestre ci è stato pagato e non sappiamo, se il giornale tornerà in edicola, quale sarà il nostro futuro. Dimenticati. Cancellati, perché in questo “si salvi chi può” noi non possiamo niente.
Pensavo di aver già provato tutte le angosce del mondo. Pensavo che peggio della precarietà, che è un sentimento oltre che una condizione oggettivo – è la sensazione di avere il fiato corto, sempre troppo corto, sulla vita – non ci fosse niente. Da ieri, da quando mi hanno comunicato che il giornale è sospeso, so che c’è di peggio. Da ieri so cosa vuol dire perdere un lavoro, che pure è un lavoro precario, ma che con infiniti salti mortali, una condizione umiliante (prendevo meno della mia coinquilina parrucchiera) e un esercizio continuo nel discernere ciò che è essenziale e ciò che non lo è, mi consentiva di andare avanti. Da ieri mi sento nelle ossa lo stesso vuoto degli operai di Ottana, dei pastori o dei minatori, anche se non ho figli perché non mi potrei permettere neanche quelli. Ho viaggiato molto – questo è l’unico lusso che mi sono voluta permettere – e metà della
mia famiglia è emigrata ovunque nel mondo: mi è venuta voglia di andarmene per sempre a fare un lavoro qualunque fuori, anche lavapiatti. Perché non penso che l’Italia si meriti me e altri giovani che, nel mio stesso identico modo, stanno dando tutto, tutti i loro
anni e il loro entusiasmo, senza ricevere niente. In nessun altro paese civile è così: non c’è nessuna proporzione tra il sacrificio, la passione, la professionalità e il compenso economico, la garanzia di un lavoro, i diritti minimi.
Beh, grazie per essere arrivato fin qui, spero che questa mail potrà servire almeno un po’ a far ricordare di noi a chi sta conducendo le trattative con l’editore”.